Del Parkinson e del tempo perduto Rosita Pirani

Del Parkinson e del tempo perduto

“Ho perso mio padre undici anni fa ma non ho perso la voglia di combattere, anche se la malattia è un gas pericoloso che consuma l’aria…”

Del Parkinson e del tempo perduto, ne scrive Rosita Pirani “figlia di Parkinson”, come tanti. Quelli che sentono di essere stati defraudati di qualcosa di fondamentale, nella loro vita.

Del tempo perduto

Ore dieci e venti da chissà quanto tempo, eppure mi sembra di avvertire il movimento delle lancette, un solletico sul palmo della mano.

Senza cinturino, col quadrante un po’ appannato, è l’orologio da cui non mi posso separare.

È il compagno di mio padre, che giocava a nascondino sotto il polsino della camicia: lo guardo e affiorano i pensieri.

Lo annuso per ricordare l’odore freddo del metallo, il vetro riflette il mio viso e mi accorgo di guardarlo arrabbiata.

“Perché non mi hai avvisato di dover godere del tempo, tu che sai quanto scorra veloce, tu, che a ogni ticchettio ti consumi un po’?”

Del Parkinson

Quando me ne parlarono per la prima volta, ho avuto paura di questo nome straniero, avevo otto anni. Avevo intuito che fosse proprio quello il motivo della tristezza negli occhi di mio padre. Un uomo giovane di appena trentanove anni che avevo sempre visto sorridente.

Crescendo, dal timore passai all’odio verso un mostro che aveva sequestrato la serenità della nostra famiglia.

La malattia è un gas pericoloso che consuma l’aria, è una sostanza che ti cambia il colore della pelle e ti fa sembrare un extraterrestre… Che ti incatena la lingua fino a perdere la voglia di comunicare.

Ero una guerriera al fianco di mio padre, difendevamo la nostra speranza di vincere contro un avversario che non avevamo la possibilità di studiare.

Mio padre se ne andò una sera d’inverno per una causa totalmente diversa.

Dopo il lutto, cercai di cancellare ogni ricordo di dolore perché mio padre fosse finalmente libero di volare. Ma non ci riuscii.

Quanti attimi di figlia mi sono scivolati tra le dita?

Quante cose avrei voluto urlare? Quanti sorrisi ho trattenuto?

È l’aritmetica dei rimpianti ciò che fa più male.

Sono passati anni prima che riuscissi a ingoiare l’amaro del tempo perduto

Mi accompagnava il desiderio di riavvolgere la vita a trent’anni prima. Avrei voluto tornare bambina e rivolgermi a mio padre così, con le parole che avevo sempre soffocato dentro un’apparente rassegnazione.

“Babbo giochiamo, dai, vieni a correre con me, dammi la mano e cadiamo sull’erba; mangiamo un gelato come i bambini, col cono che pende, impiastricciandoci le mani; facciamo i nodi ai lacci delle scarpe perché il fiocco non ci viene bene e poi è da femminucce”.

“Camminiamo tra la gente, babbo, dai, facciamo le smorfie a chiunque ci osserva con sguardo compassionevole; andiamo a ballare scatenati in un locale, facciamo oscillare le braccia anche vicini ad un vassoio con i bicchieri di cristallo perché siamo liberi di sconquassare il mondo”.

“Arriviamo in ritardo all’appuntamento, babbo, con i nostri tempi, prepariamoci con calma, mi sistemerò i capelli come fanno le ragazze con la stessa attenzione che hai mentre ti abbottoni la camicia, proverò a farmi le trecce riflessa nello specchio, alle tue spalle, lo farò in modo distratto perché non c’è niente di più bello che osservare il modo in cui sistemi il nodo alla cravatta”.

Ho un sogno che sento di condividere con lui
  • Rosi, cosa stai scrivendo?
  • Di noi, babbo… di quanto le sofferenze possano tramutarsi in opportunità di sentire di più la vita scorrerci addosso.
  • A chi vorresti scrivere?
  • A chiunque abbia voglia di ascoltarci. Ti ricordi quando ne avevamo bisogno noi e non abbiamo trovato nessuno che potesse sostenerci?

Rosita Pirani

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