
«Avevo 7 anni quando mia madre si è ammalata di Parkinson»
Il Parkinson si è presentato ai miei occhi quando ero ancora troppo piccola per capirlo e fronteggiarlo come avrei dovuto. Mia madre stava male già da qualche tempo ed erano cominciati i pellegrinaggi negli studi medici. Ma il suo malessere galoppava nel suo corpo ancora senza identità e senza nome. Negli anni Ottanta questa malattia era ancora poco conosciuta e difficilmente diagnosticabile.
(di Valeria Pecora). Eravamo insieme io e lei quel mattino soffocante e afoso d’estate. Eravamo uscite a fare una passeggiata. Io presa dalla fretta di arrivare al bar e comprarmi un gelato, lasciai la sua mano e corsi veloce, non vidi un masso e inciampai in mezzo all’asfalto. Battei la testa e per qualche minuto rimasi intontita, semisvenuta.
Eravamo sole in quel punto della strada, io e mia madre. Nessuno a soccorrerci e mi ricordo che la mia caduta coincise con il suo primo blocco. Non poteva muoversi, sembrava paralizzata.
Urlava e cercava di strattonare le sue gambe pur di venirmi a salvare ma… niente. Restava lì, immobile, sequestrata dalle avvisaglie della malattia. Per fortuna mi rialzai, arrivarono delle persone a darci una mano, mia madre riprese dopo un po’ a camminare e a me restò solo un bernoccolo in testa.
Ai miei occhi di bambina quello che è stato atroce accettare è che lei – mia madre – da quel giorno sarebbe cambiata e io con lei.
Blocchi e tremori.
Dovetti imparare a correre da sola, ad inciampare da sola ancora tante volte, ad andare in bicicletta senza il sostegno delle sue braccia.
La sua malattia l’ha condannata ad una maternità zoppicante.
Sono parole spietate da dire ma anche vere e liberatorie. Pronunciate con amore. Quando la malattia arriva, il malato è e pretende di essere l’attore “protagonista” sul palcoscenico della vita dentro la famiglia.
Ci si dimentica a volte però di tutte le comparse, gli altri familiari, mariti/mogli e figli che vengono lasciati dietro le quinte ma che non vengono risparmiati dal clamore e dal terrore della malattia.
I “figli” di Parkinson imparano presto a camminare sulle loro gambe, le gambe che vedono fermarsi di coloro che li hanno messi al mondo.
I “figli” di Parkinson hanno paura, la notte spesso si scontrano con gli incubi.
Crescendo i “figli” di Parkinson diventano ansiosi, sperimentano troppo presto il timore della morte.
È una malattia che non uccide ma che fa sentire in qualche modo già “orfana”. Mia madre mi è mancata, mi manca e mi mancherà sempre anche se per fortuna è ancora viva.
La malattia di Parkinson – oramai da più di venticinque anni – mi lascia ansie, paure, sensi di colpa, il timore di ammalarmi, di rivivere la stessa sorte di chi amo.
Questa malattia mi ha insegnato il valore della lotta perché non dà scelta. Mi ha fatto sentire arrabbiata per tanto tempo, in credito con la vita, mi ha costretta moralmente e concretamente ad una infanzia e adolescenza piena di responsabilità, di sacrifici e di pensieri grandi. Smarrivo la mia spensieratezza ma poi la riacciuffavo. Piangevo e ridevo molto nello stesso tempo.
Il Parkinson mi ha fatto riscoprire la figura dell’altro genitore. Mi ha obbligata a fare i pieni d’amore. Mio padre si è preso cura di me, delle mie sorelle e di mia madre quando il Parkinson è venuto a bussare a casa nostra.
I “figli” di Parkinson imparano sulla propria pelle che anche “stare seduti” è una buona posizione dalla quale guardare il mondo.
I “figli” di Parkinson sviluppano per facilità di comprensione, una maggiore apertura e sensibilità verso i problemi della disabilità e hanno l’urgenza di andare sempre in profondità in tutto quello che fanno. Il fatto di dover passare più tempo a casa rispetto agli altri bambini e poi adolescenti mi ha fatto coltivare delle passioni meravigliose come la musica e soprattutto la lettura e la scrittura.
La verità è che nessun figlio vorrebbe vivere e vedere questa malattia consumare i propri genitori. Non è vero che le malattie rendono migliori le persone. Soprattutto i bambini che dovrebbero ritagliarsi l’infanzia come il Paradiso perduto dell’esistenza.
Però purtroppo questa malattia non si fa scegliere, ti sceglie lei.
Non resta che ricostruire dalle macerie, proteggersi, parlarne, urlare il proprio dolore, ritagliare ai figli il cono di luce per avere tutte le coccole, gli abbracci e le attenzioni che meritano. Bisogna uscire dall’ombra, sfondare le quinte. Bisogna costruire una corazza, l’armatura contro la malattia e il dolore per i figli di Parkinson. Per me l’arma più potente è e sempre sarà l’Amore
(nella foto del novembre 2014, Valeria con la madre Marisa)
Valeria ha scritto un bellissimo libro, dove racconta la sua esperienza di “Figlia di Parkinson”.
“Le cose migliori”
di Valeria Pecora,
ed. Lettere Animate, 2015
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Io ammalato di Parkinson da 8 anni.Nella sofferenza che si misura la forza dell’uomo, in genere si è sempre soli, sopratutto nella malattia l’uomo lotta da solo e vince da solo.
è vero nella malattia si è sempre soli ma quando ci sono le difficoltà l’amore di chi ti sta’ vicino diventa importante a condizione che qu4esto amore tenga sempre presente delle esigenze dell’ ammalato per quanto possa sembrare strano se no condiziona l’ammalato e va contro un esigenza
che lui ha ma che il famigliare non capisce alle volte neanche il medico) Comunque le situazioni sono molteplici e difficili da spiegare mi terrò’ in contatto con chi volesse scrivermi e verificare risposte a situazioni diverse.
roberto39.