"Figli di Parkinson"

«Tanti auguri a te, Tanti auguri a…»

11 dicembre 1983. La canzone suonava in maniera strana, la stessa che avevamo sempre sentito dedicata a una sola persona. In quella domenica pomeriggio di festa, ognuno dei presenti aveva cercato con tutto l’amore possibile di adattarla a noi due.

“Figli di Parkinson”, eravamo. Due torte, quattro candeline azzurre, otto di colore rosa e solo 39 anni il mio babbo.

«Tanti auguri a te, tanti auguri a te, tanti auguri Andrea e Rosita, tanti auguri a te!»

Io sono nata alla fine di ottobre, mio fratello i primi giorni di dicembre e quel giorno festeggiammo insieme. Io in ritardo di oltre un mese e lui solo di qualche giorno, ma era tutto perfetto lo stesso.

Eravamo già entrati in una dimensione diversa: la sensazione era quella dell’inizio di un ritmo di vita nuovo. Quelli dei “Figli di Parkinson”.

Pochi giorni prima del mio compleanno, il mio babbo sentì pronunciare qualcosa che ci avrebbe accompagnato per tutta la vita. «Lei ha il morbo di Parkinson» gli dissero.

Dopo mesi di visite, controlli e confusione, gli consigliarono un ricovero per accertamenti. Dall’ospedale portammo a casa dentro la sua valigia, oltre all’odore di disinfettante, anche questo nome straniero. E un colore opaco negli occhi del mio babbo.

Una nuova vita da “Figli di Parkinson”

Questa foto è l’inizio della nostra nuova vita. La normalità che la mia mamma non trovò più. Il silenzio del mio fratellino che non chiese mai cosa di strano ci fosse nella nostra famiglia. E la forza di un uomo che dietro l’obbiettivo della macchina fotografica nascondeva un sogno: che non cambiasse mai nulla per noi.

Mi commuovo a vedere i soffi sulle candeline, immagino i desideri liberati da quelle labbra di bambini. Per Andrea sicuramente un trenino, per me che il nostro babbo guarisse.

Avevo capito tutto e purtroppo non mi fu nascosto nulla. Ci pensò un professore del reparto neurologia.

Un giorno fece entrare me e mio fratello nel suo studio lungo il corridoio e ci disse che il nostro babbo stava male.

Non era una sorpresa per me, il babbo non era a casa con noi e la sera dormiva su un letto insieme a tante persone sofferenti. Immaginavo che qualcosa non andasse per il verso giusto, ma le parole di quell’uomo congelato esplosero dentro di me come un tuono.

Sarebbe stato il mio segreto. Come se fossi l’unica a esserne a conoscenza, perché il silenzio mi avrebbe aiutato a proteggere la mia famiglia da questo ospite straniero.

Non abbiamo mai visto il mio babbo come una persona malata

Il mio babbo era molto forte e, quando le sue mani cercavano le tasche dei pantaloni, io sentivo che era il momento di guardarlo con lo sguardo più sereno. Se non ero preoccupata, sapevo che presto avrebbe potuto liberare le sue dita che si irrigidivano.

La sofferenza più grande per lui era avvertire la preoccupazione delle persone che lo amavano perché – a volte – la troppa premura può soffocare anche il più abile guerriero.

Io e mio fratello non abbiamo mai visto il mio babbo come una persona malata. Le medicine, i suoi blocchi, i tremori, le piccole e grandi difficoltà erano normalità per noi. Come per i nostri amici le sigarette, le serate al bar, allo stadio o la poca maestria nel cucinare o stirare una camicia.

Quello che ci faceva soffrire erano gli sguardi compassionevoli delle persone

Questo era ciò che mi faceva scattare, che infuocava i miei occhi dello stesso colore di quelli di un animale feroce. Volevo proteggerlo perché non si sentisse inadeguato, perché per noi era meraviglioso, sempre.

E arrivò la solitudine. Pian pianino le uscite con zii e cugini diventarono sempre più rare. Si preferiva un giro in auto tutti e quattro, ad ascoltare le canzoni o le partite alla radio, piuttosto che passeggiare.

Senza accorgermene, ho iniziato a conoscere il signor Parkinson. Da ombra, giorno dopo giorno, gli diedi il viso, gli occhi e la figura di un uomo. Perché volevo vincere la paura e mi consolava pensare che fosse tutta colpa sua il fatto che non capissi alcune situazioni. Mi faceva sentire forte sapere che avrei potuto da grande prenderlo per il colletto e sbatterlo fuori di casa.

Sono diventata grande presto. Come tutti i “Figli di Parkinson”, credo. Penso di aver sorvolato velocemente sulla spensieratezza dell’infanzia e mi sono svegliata improvvisamente come una piccola donna fragile. Scherzando mi definisco un animaletto selvatico, così sensibile, imprevedibile e inafferrabile.

La mia mamma e mio fratello, diversamente da me, non riescono ancora ad aprirsi e raccontare. Il silenzio ancora li soffoca.

Il mio babbo è il ritratto di un grande guerriero perché senza mezzi, né appoggi medici adeguati, ha difeso ogni attimo di vita perché gli appartenesse. È l’immagine di un grande atleta, perché anche nei momenti di stanchezza ha sempre respirato a fondo anche il suo stesso sudore.

Da figlia vorrei chiedere a tutti i “Figli di Parkinson” di non ascoltare nessuno se non il proprio cuore. Perché non esistono parole, consigli, ma solo il profumo dell’amore.

Infine un augurio

Un arrivederci con le parole del mio babbo per le persone che convivono con il Parkinson:

«Per chi ci ama si è sempre unici e insostituibili, cambieranno i modi e i tempi per sentirci utili. Ma è bello sentirsi giovani e graffiare con la nostra voglia di vivere quelle morse che a volte ci rendono prigionieri».

Rosita Pirani

«Avevo 7 anni quando mia madre si è ammalata di Parkinson»